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Il Giudice Livatino Beato, Scultura di Vincenzo Greco monumento Legalità 2021

Mi presento Sono Vincenzo Greco, Artista: scultore, pittore mosaicista.
Oggi è un giorno importante perché il Giudice Rosario Livatino viene Riconosciuto
Finalmente Beato e Prossimo alla Santità e Martire della legalità
ho l'onore di aver realizzato una scultura un monumento sul "Giudice Ragazzino"


Scultura monumentale dedicata al Giudice Livatino


L'arte e la poetica e prevalentemente collegata alle esigenze del culto della legalità.
Sono certo che prima o poi ci sarà un cambiamento per il meridione e per l'Italia intera, che parta dall'alto, in grado di creare un'unità "Vera" e condizioni imparziali per tutti.

Personalmente penso che la nostra coscienza è assopita, dormiente, e non riesce a controllare gli effetti di nessuna causa, in conseguenza di tutto ciò siamo esseri limitati senza nessun potere sugli eventi. Tutti noi, "schiavi impauriti", mortificati e frenati nel nostro "libero pensiero". La fede forte nella legalità che ha portato i giudici alla morte ci fa sperare ancora in un nuovo ciclo che spazzerà via questo "Medio Evo buio" di sottomissione, e l'intero Sud balzerà in piedi, rendendosi conto di aver vissuto un brutto incubo.

Ricordate la favola della "Bella Addormentata"? Dove l'intero Reame si trovava sotto il maleficio di una brutta e cattiva strega? Bene, il reame che dorme è l'umanità e il nuovo ciclo equivale all'Eroe, al Principe Azzurro, che con una nuova qualità energetica risveglierà tutti. Quindi, per essere in sintonia con questo evento, si dovrà cambiare il modo di vedere le cose, rinnovarsi, perchè il tutto inizia e finisce dentro di noi.

In quanto alla mia originale idea di opera d'arte che parla di Unità e di Legalità tratta il tema dei Giudici " Saetta e Livatino" vuole certamente dare vita a concetti di alto spessore sociale che comunicano direttamente al "nuovo uomo" che, "alimentato" di una nuova energia con caratteristiche superiori, si desta da un lunghissimo letargo per rafforzare una Unita' dello stato sempre più forte. Allora i suoi occhi si apriranno e ri-sorgerà come l'Araba Fenice dalle sue stesse ceneri.

Il significato concreto dell'opera, vuole rendere onore all' Italia e ai due magistrati Canicattinesi, ed esprime la profonda e sincera gratitudine per l'essenziale, preziosa attività che loro hanno svolto a beneficio della collettività. L'opera parte da un "Delta Sacro" quasi a ipotizzare che il loro cammino è stato segnato da un progetto Divino.

L'ispirazione per la realizzazione di quest'opera deriva dal desiderio di forme perfette quasi a voler teorizzare il desiderio dei due Giudici, concretizzare un'utopia: "Un' Italia perfetta " un monumento dalle linee pulite e di semplice comprensione, dominato da un rigoroso senso della geometria. Dal Volto si è ricavato una silhouette che a partire dal centro rappresenta il punto da dove l'uomo/giudice, conoscendosi, può raggiungere qualsiasi traguardo, attraverso notevole impegno, lavoro, dedizione ed intuito. Sotto il delta centrale una sequenza di volti rinasce e si sviluppa.

Ci piace pensare che il cammino continua oltre il semplice evento mortale, poiché la perdita della vita gli ha assicurato l'immortalità come "la fenice", rinati dalle loro ceneri perpetuano il loro nobile messaggio di Legalità. Due stele di marmo squadrato geometricamente perfetto contengono i volti dei giudici realizzate di un materiale prezioso, quasi a scandire l'evoluzione che va dalla pietra grezza alla pietra angolare all'oro.

Entrambi, Livatino e Saetta, rappresentano un mito, la loro vita un modello morale e spirituale che offre la visione di un percorso di autoperfezionamento dell'uomo, che impara a crescere attraverso l'abnegazione e il sacrificio di una vita per un ideale: L'unità D'Italia nella Legalità

Canicattì lì 25 maggio 2011 Vincenzo Greco

 

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

Non ci sono reliquie di quel che resta del corpo di Rosario Livatino, sull’altare della sua beatificazione, ma la camicia azzurra indossata dal “piccolo Davide” nel giorno dell’ultimo scontro con il “Golia” mafia, il 21 settembre 1990, sul viadotto Gasena della statale Caltanissetta-Agrigento. Una piccola camicia ingrigita dal sangue rappreso, per un magistrato, un giudice, di nemmeno 38 anni, alto un metro e sessanta, che ha usato la fede, per fermare la criminalità organizzata. Perché “il suo sangue diviene seme di cambiamento, trasformazione, rinascita”. L’immagine la offre a Vatican News il postulatore della causa di beatificazione, l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace Vincenzo Bertolone, che nella celebrazione di questa domenica nella cattedrale di Agrigento, presenta la vita del beato Rosario Livatino ai 200 partecipanti, in rappresentanza dei vescovi siciliani, presbiteri, religiosi, fedeli, familiari e autorità.

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Le foto di un volto "sereno", di chi si è affidato a Dio
Sopra quel reperto, finora esposto solo nelle aule di giustizia, e che la Corte d’Assise di Caltanissetta ha concesso in “affidamento temporaneo” all’arcidiocesi di Agrigento, i suoi colleghi accorsi poco dopo l’allarme lanciato dal testimone Pietro Nava, videro il volto “sereno, pur se colpito da un proiettile, di una persona che in quel momento tragico e finale si è affidata a Dio, come faceva tutti i giorni andando a pregare prima di entrare in tribunale”. A descriverlo a Vatican News è Toni Mira, inviato speciale di Avvenire, autore del libro “Rosario Livatino. Il giudice giusto”, appena pubblicato dalle Edizioni San Paolo. Mira ha potuto vedere, allegate al referto dell’autopsia sul corpo del magistrato di Canicattì, due foto scattate poco dopo l’omicidio. Ed è rimasto impressionato “dalla serenità di quel giovanissimo volto”, di chi aveva affidato a Dio tutto il suo delicatissimo lavoro di magistrato, con la sigla “STD”, Sub Tutela Dei, con la quale apriva ogni giorno sulle sue famose agendine.

Due rare immagini del beato Rosario Livatino, che non amava apparire
Due rare immagini del beato Rosario Livatino, che non amava apparire
La veglia. Damiano: serve un cammino di liberazione dal male
Ieri sera, nella chiesa di san Domenico a Canicattì, la parrocchia della famiglia Livatino, frequentata anche da Rosario, l’arcivescovo coadiutore di Agrigento, monsignor Alessandro Damiano, ha presieduto la veglia in attesa della beatificazione, chiedendo a tutte le comunità della Diocesi di impegnarsi “a investire l’eredità di Rosario Livatino in vita nuova, in un cammino di liberazione dal dominio del male: quel male che si manifesta nelle logiche mafiose e affascina e seduce come il tentatore che avvicina Gesù nel deserto”. Ha definito il giovane giudice martire della giustizia, primo magistrato beato nella Chiesa cattolica, “profeta prima che martire” perché ha saputo leggere la storia con gli occhi di Dio.

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Livatino modello di vita buona, animata da giustizia e carità
Monsignor Damiano ha poi citato il sacerdote canicattinese Domenico De Gregorio, che già nel 1982 definiva “perfetta mafia” il non compiere il proprio dovere, disprezzare il debole e chinarsi al potente, come pure calpestare il bisognoso o farsi “pagare per ciò che, in forza del tuo ufficio, sei obbligato a fare”. Da ultimo, ha ricordato le parole del cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, alla chiusura del processo diocesano di canonizzazione, il 3 ottobre 2018, che ha definito Livatino “simbolo di una società cristiana che si vuole opporre al male e decide di sconfiggerlo con una vita buona animata dalla giustizia e dalla carità”.

Monsignor Vicenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace e postulatore causa Livatino
Monsignor Vicenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace e postulatore causa Livatino
Bertolone: martire emblema dell'uomo guidato dalla fede
Oggi quindi la Chiesa indica Rosario Livatino come modello “a coloro che hanno fame e sete di giustizia” e riconosce il suo martirio “in odio alla fede”. Abbiamo chiesto al postulatore, l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, di spiegarci come si è arrivati a questo riconoscimento.

Ascolta l'intervista a monsignor Vincenzo Bertolone
R.- Il martirio cristiano richiede che la causa della morte sia la fede o la pratica di una virtù connessa con la fede. In odio alla fede: è un’espressione che comporta, non soltanto un’azione assassina, quale è quella compiuta dal commando che ha ucciso Rosario Livatino, ma anche la necessità di verificare se l’atto portato a compimento è accaduto per mera ritorsione, vendetta, o perché la persona eliminata era come l’emblema, quasi l’incarnazione, dell’uomo guidato dalla fede. Nel caso di Livatino, ideatori e mandanti volevano mettere a tacere per sempre un uomo e un magistrato che incarnava, nella sua professione, il suo ideale di fede e di giustizia. Le mafie hanno il culto del potere onnipotente e non tollerano un uomo di fede, che esse chiamano dispregiativamente un “bigotto” e uno “scimunito” che, invece, da uomo giusto, sa armonizzare le esigenze del Vangelo e le prescrizioni dei codici penali. Livatino era consapevole di rischiare la vita e per questo decide di non contrarre matrimonio e di non coinvolgere in un ipotetico agguato degli innocenti.

Rosario Livatino, beato: le frasi più celebri
  • Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti ma credibili.
  • “Spero che il mio intervento offrirà materia di riflessione su due temi che possono anche porsi in perfetta antitesi tra loro: la società che cambia e il magistrato.

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"Alla fine della vita, non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili", ha detto il prossimo beato. In cosa Livatino è un testimone credibile per i cristiani di oggi?

R.- La frase da lei citata, piuttosto che una citazione testuale, mi sembra una buona sintesi delle tesi espresse da Livatino nella sua esistenza professionale e, soprattutto, nei suoi scritti, come le agende di alcuni anni e le due conferenze pubbliche. In ogni caso, la sua credibilità - molto odiata dai mafiosi, che avrebbero preferito un magistrato che “si facesse i fatti suoi” o fosse disponibile ad “aggiustare le sentenze” - diviene un esempio non solo per i cristiani, ma per tutte le persone di buona volontà, soprattutto se impegnate nel campo della giustizia e del diritto. Per Livatino, la persona e la sua dignità vanno al primo posto, anche se la persona ha commesso reati, e la pena giustamente inflitta dev’essere redentiva e non afflittiva. Fondamentale è per lui il rispetto per la morte e la sua dignità: anche se si è di fronte al cadavere di un criminale, osserva Livatino, “chi crede prega, chi non crede tace”.

"Dal 'martirio a secco' al martirio del sangue" è il titolo che lei ha scelto per il suo ultimo libro sul giudice Livatino. Cosa intende per "martirio a secco", e come ha reagito Rosario?

R.- L’espressione “martirio a secco”, che ho ripreso nel sottotitolo del libro edito dalla Morcelliana, fu usata nell’Ottocento dal fondatore della mia Congregazione, il siciliano beato Giacomo Cusmano, che scrivendo ad una suora disse che “anche Girgenti è terra di missione e di martirio a secco”. In questo senso il territorio agrigentino diviene il territorio di missione di Rosario Livatino: avrebbe potuto scegliere altre sedi, ma non lo fa; avrebbe potuto mantenere un profilo basso e non intraprendere tante azioni requirenti, invece è il magistrato requirente più produttivo nel quinquennio 1984-1988; nell’ultimo anno di vita, sarebbe potuto passare alla sezione civile, certamente meno pericolosa, invece resta nel penale, pur sapendo che è un ambito difficilissimo; avrebbe potuto ricorrere a qualche forma di tutela e di scorta, ma non lo fa per evitare che degli innocenti passassero dei guai a causa sua. Tutto questo è martirio a secco, che poi diviene anche martirio di sangue, che Livatino offre, come ricaviamo dalle ultime parole, per la salvezza di quei “picciotti”, così li chiama, che lo hanno inseguito e stanno per sparare l’ultimo colpo con armi militari.

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Come parlerebbe, in breve, di Rosario Livatino ad un giovane che non sa nulla della sua vita e della sua testimonianza?

R.- Anche un ragazzo poco più che ventenne può, se s’impegna e studia, superare un difficile concorso. E anche un giovane magistrato può contribuire al cambiamento di una terra asfissiata dalle mafie e dal sangue. Livatino, negli anni della seconda guerra di mafia, che versa ettolitri di sangue per eliminare avversari e imporre il proprio dominio sulla gente, è come il piccolo Davide che ha la fionda per fermare il gigante Golia: le mafie, pur con i propri assassini efferati, nulla possono di fronte alla morte di un giovane, il cui sangue diviene seme di cambiamento, trasformazione, rinascita. Rosario è un giovane come te in una terra difficile; è un giovane che ama e s’innamora dei suoi “angeli biondi”, ma rinuncia a stabilizzare i suoi affetti per non lasciare una vedova e dei figli orfani. Trasfigura il suo amore nella dedizione al lavoro e alla redenzione degli altri e della società.

Cosa cambia nella vita della Chiesa e della società siciliana e di tutte le terre dove ancora il fenomeno mafioso è più forte, con questa beatificazione?

R.- La beatificazione di Rosario Livatino ci ricorda che nel contrasto alle mafie, non si fa mai abbastanza e non solo da parte della Chiesa. Che la sola risposta repressiva non basta, perché occorre combattere le ingiustizie, favorire i diritti dei cittadini e creare opportunità di lavoro. Occorre lavorare tantissimo nella formazione dei ragazzi, dei giovani e degli adulti, partendo dalle scuole elementari. Livatino mostra che le mafie esistono e come la fede possa esprimersi nel servizio alla Chiesa, alla comunità civile, allo Stato ed alle sue leggi ed è un faro luminoso per chiunque intenda, con spirito evangelico, porre un freno all’incidenza sociale delle mafie. Aiutiamo le giovani generazioni ad avere coscienze rette e schiena dritta. Il cammino è iniziato con Giovanni Paolo II nel 1993, con Papa Benedetto nel 2010 a Palermo, con Papa Francesco a Cassano allo Ionio, e adesso con questa beatificazione. Continuarlo è l’impegno di tutti, senza mai abbassare la guardia.

Toni Mira (a sinistra) sul luogo del martirio di Rosario Livatino
Toni Mira (a sinistra) sul luogo del martirio di Rosario Livatino
Toni Mira: un beato ancora tutto da scoprire
Il libro realizzato da Toni Mira, già autore di pubblicazioni e inchieste sul fenomeno mafioso e sulle nuove ecomafie, che nel 2019 gli sono valse il “Premio Paolo Borsellino”, è frutto di un ampio lavoro di indagine e dell’ascolto di molti testimoni, colleghi, collaboratori nelle indagini e persone informate sui fatti. Un lavoro che però non ha soddisfatto del tutto la sua curiosità sulla figura di Rosario Livatino.

Ascolta l'intervista a Toni Mira
R.- Mi resta ancora la curiosità di conoscere di più il “piccolo giudice”, di riuscire a trovare qualche altra carta, soprattutto del suo lavoro, per poter poi eventualmente raccontarlo ancora. Ma più che altro la curiosità di conoscerlo ancora: non l’ho potuto conoscere di persona, ma piano piano è come se lo avessi conosciuto direttamente, e vorrei conoscerlo ancora di più. Mi rimane l'immagine di un servitore dello Stato di straordinario valore, di cui abbiamo capito il valore soltanto, ahimé, dopo la morte, mentre la mafia l'aveva capito benissimo. La mafia sa prima di noi chi è un pericolo per i propri affari e lo colpisce duramente, come ha fatto con Rosario Livatino e con tanti altri magistrati. Un servitore dello Stato che aveva quel di più, quel riuscire a coniugare la giustizia che lui scriveva sempre con la G maiuscola con la carità. Un magistrato preparatissimo, avanzatissimo, che applicava le ultimissime norme, come quelle in tema di sequestro dei beni ai mafiosi, o addirittura anticipava alcune norme che ancora non esistevano, come il voto di scambio o come il poter fare accertamenti bancari che portassero poi a scoprire la commistione tra economia e mafia e potere politico. In più aveva un grande rispetto per la persona: anche il più terrificante assassino, di più potente mafioso, per Livatino rimaneva una persona. A tal punto che quando entravano nel suo ufficio, lui si alzava e gli dava la mano: anche al mafioso. Al punto da andare a pregare sul cadavere di un mafioso ucciso nella terribile guerra di mafia che ci fu in quegli anni, di cui lui si occupò, più di 200 morti in pochissimi anni. Andava a pregare a all’obitorio sul cadavere di un mafioso, di fronte allo stupitissimo custode dell'obitorio che mai avrebbe pensato che un magistrato andasse lì a pregare. Oppure andare in una giornata di Ferragosto a portare il decreto di scarcerazione per una persona che doveva uscire dal carcere e all’agente penitenziario che gli diceva: “Ma dottore lei a Ferragosto viene qua?”, rispondeva: “Questa persona deve uscire, la libertà è la cosa più importante”. Ecco, questi sono gli elementi che lo hanno caratterizzato e che mi hanno colpito di più: un cristiano a tutto tondo, un uomo di fede, ma con una grande professionalità. Mandava in carcere, Livatino, non era un buonista. Se c'era bisogno di colpire duramente, colpita duramente, dal mafioso, all'assassino, fino al rappresentante del potere. Ma poi restava sempre il suo rapporto con l'uomo e questo lo faceva con grande riservatezza. Non abbiamo nessuna intervista di Livatino, pochissime foto. Non gli piaceva apparire, ma devo dire che le poche cose che ha scritto, ma soprattutto i suoi atti sono di un valore straordinario.

Il libro "Rosario Livatino. Il giudice giusto", di Toni Mira
Il libro "Rosario Livatino. Il giudice giusto", di Toni Mira
Cosa hai trovato in particolare, raccogliendo testimonianze e materiale su Livatino per il tuo libro?

R.- Ho avuto la fortuna di trovare un documento inedito, un’orazione funebre al funerale di un collega che lui apprezzava moltissimo. Lui parla del collega, ma in realtà parla di se stesso. Descrive quello che deve essere un magistrato, ed è un testo di un'attualità straordinaria, se pensiamo in questi giorni in cui la magistratura è in mezzo a un gran polverone e ha perso moltissima credibilità nei confronti dei cittadini. Ecco, lui diceva: “Che impressione diamo noi hai cittadini, che impressione vogliamo dare?”. Già allora, c'erano dei problemi anche dei rapporti tra magistratura, politica e cittadini e lui ne era cosciente: già lo diceva, e stiamo parlando del 1983, sembra scritto oggi. E un’altra cosa che mi ha molto colpito è l’aver visto le foto di Rosario Livatino in quella scarpata dove lui cercò di fuggire dai killer, le due foto allegate all'autopsia. Sono immagini struggenti, ma che mi hanno confermato quello che mi hanno detto i magistrati che sono scesi anche loro in quella scarpata, seguendo le tracce del sangue di Livatino, fino a trovare il piccolo corpo del piccolo giudice. Il suo volto, pur colpito da un proiettile, non è devastato. E’ un volto sereno, come se Rosario Livatino fosse pronto a questo momento. Lui si era preparato, lo sapeva, non aveva voluto la scorta perché non voleva che altri potessero pagare al posto suo con la vita. Temeva soltanto ovviamente di lasciare soli i genitori, ma lo sapeva che era veramente a rischio. L'immagine di quel volto sereno, di una giovanissima persona, ancora più giovane di quella che era a 37 anni, è un'immagine di serenità che non riesco a dimenticare. E rappresenta davvero una persona che in quel momento si è affidata a Dio, come faceva tutti i giorni andando a pregare prima di raggiungere il tribunale e di fare il suo difficilissimo lavoro, e che aveva affidato a Dio il suo lavoro. Con quell’ STD, “Sub Tutela Dei” che lui scriveva tutti i giorni nelle sue agende. In quel momento lui si è affidato da Dio e quell’immagine di serenità per me la rappresenta pienamente.

Nel discorso inedito al funerale dell'amico magistrato, lui sottolinea la differenza tra essere operatori di diritto e Operatori di Giustizia: quelli di giustizia sono quelli che sanno andare al di là della legge, cioè quello che la legge magari non dice, loro cercano di applicarlo per giustizia. E’ importante questo anche oggi?

R.- Assolutamente sì, perché in un momento in cui sentiamo sempre di più il richiamo al tintinnare delle manette, è fondamentale questo suo mantenere assieme giustizia e carità, giustizia e rispetto delle persone, che poi è quello che è il diritto, come ricorda la nostra grande Costituzione. Ricordiamo che Livatino teneva sulla scrivania il Vangelo e la Costituzione, e aveva chiarissimo che ci fosse uno stretto rapporto tra i due. La nostra Costituzione dice che c'è sempre una possibilità, per tutte le persone, di poter riscattare la propria vita.

Invece nel discorso già noto, quello su fede e diritto del 1986, Livatino diceva che “Il rendere giustizia è preghiera e dedizione a Dio. Compito del magistrato è decidere, quindi scegliere”. Possiamo dire che in questo operava un discernimento, sotto lo sguardo e la guida di Dio, nella preghiera e nella lettura del Vangelo, e anche per questo è beato?

R.- Certo, lui parla di scegliere: sono state tante le scelte di Rosario Livatino. La scelta di restare nel suo paese, di restare con suoi genitori, la scelta di fare il magistrato quando con le sue capacità, di cultura e di preparazione, avrebbe potuto fare altri lavori sicuramente più remunerativi. La scelta di fare delle inchieste che probabilmente altri non avrebbero fatto, la scelta comunque di mantenere quelle porte aperte nei confronti delle altre persone, e poi la scelta di Dio, è evidente. E i mafiosi lo avevano capito, chiamandolo “santocchio”, perché sapevano che andava tutti i giorni a pregare, a tal punto che avevano progettato inizialmente di ucciderlo fuori dalla chiesa. Avevano capito che Livatino aveva un qualcosa in più, oltre a quello che avevano tanti altri suoi colleghi magistrati. Ed è quello che i suoi colleghi, quando ho chiesto un ricordo di Livatino, mi dicono sempre. Questo di più che aveva Livatino rispetto alla qualità di un bravo magistrato.

Ed è per fede, secondo te, che si è sacrificato al posto di colleghi con moglie e figli chiedendo di occuparsi lui delle inchieste più rischiose?

R.- Anche questa è un’altra scelta. Ovviamente lui ha di fronte l'immagine del crocifisso. Non trovò il crocifisso nel suo ufficio e tramite un suo amico sacerdote, lo fece chiedere all'arcivescovo che gli fece avere un crocifisso da mettere nel suo ufficio. E l’immagine del crocifisso è immagine del martirio, verso il quale lui sa che sta andando. Lo scrive, chiaramente, anche nelle sue agende, lo accetta, non lo allontana, sa che questo sicuramente provocherà un grande dolore nei suoi anziani genitori che lui adorava e che proteggeva in tutti i modi, ma va fino in fondo.

E dove vive oggi Rosario Livatino, la sua testimonianza, come scrive anche don Ciotti nella prefazione del tuo libro? La Sicilia è cambiata e sta cambiando, grazie al suo sacrificio?

R.- Io spero di sì. Devo dire che rispetto ad altre vittime innocenti delle mafie, Livatino non è stato conosciuto fino in fondo. Proprio in quanto non era un personaggio pubblico, rispetto ad altri. Però ogni volta che lo si riesce a far conoscere, le persone scoprono una persona normale. Non è un supereroe, ma dimostra che è possibile farlo, se lo si fa insieme. Aveva l’idea che si dovesse fare assieme: inventò i gruppi misti della polizia, fu tra i primi a lavorare insieme con il pool di Palermo di Falcone e Borsellino, perché contro le mafie vince non solo il “No”, ma anche il “Noi”.

Forse a questa beatificazione non si sarebbe mai arrivati senza il coraggio di Pietro Ivano Nava, il testimone che ha riconosciuto i killer e che per questo ha perso tutto: il nome, la famiglia, il lavoro. Eppure lo rifarebbe. Anche questa è una testimonianza da ricordare, oggi?

R.- Assolutamente sì, ed è uno di quegli strani eventi, forse potremmo dire dei segni del destino, di come in quel luogo ci siano state delle coincidenze straordinarie. Poteva passare un altro, o non passare nessuno. Passa Pietro Nava, che ha una capacità straordinaria di osservazione, di memoria e non soltanto ha la coscienza straordinaria di andare subito a denunciare quello che ha visto, ma lo descrive in un modo talmente particolareggiato da far individuare immediatamente i due killer. Il fatto che lui, pur cosciente, perché lo capì dopo poche ore, che la vita gli sarebbe stata completamente stravolta, glielo dissero chiaramente i poliziotti, malgrado questo lui continua a ripetere che lo rifarebbe ancora. Perché è quello che andava fatto in quel momento. Per me è già un piccolo, primo miracolo di Rosario Livatino. Ma ci sono tante altre coincidenze, tanti altri colleghi che, incrociando Livatino, dicono che la vita gli è stata cambiata. Il primo, sicuramente, è Pietro Nava: un banalissimo agente di commercio che diventa in quel momento quello che noi definiamo un eroe, ma che è semplicemente la normalità di chi fa qualcosa che andava fatto in quel momento. Livatino, il “piccolo giudice” beato, tra lotta alla mafia e umanità
Domani mattina, nella cattedrale di Agrigento, la beatificazione di Rosario Livatino, il magistrato martire della giustizia, ucciso,“in odio alla fede” dalla “stiddra” il 21 settembre 1990, a meno di 38 anni, ma con già 12 di servizio. Il postulatore diocesano: in tutti i suoi gesti e parole, una grande umanità e voglia di normalità, e l’impegno a camminare sempre “sotto lo sguardo di Dio”. L’incontro col killer pentito che testimoniò al processo di beatificazione
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

Il primo magistrato beato nella storia della Chiesa era un uomo innamorato di Dio, dei suoi genitori e della giustizia, che cercava la normalità del bene e aveva fatto voto di “camminare sempre sotto lo sguardo del Signore”. Rosario Angelo Livatino, che viene beatificato domani mattina, domenica, nella cattedrale di san Gerlando ad Agrigento, in un rito che si apre alle ore 10, presieduto dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, è stato ucciso, “in odio alla fede”, da quattro killer della “stidda”, la cosca ribelle dell’agrigentino, il 21 settembre 1990, quando non aveva ancora 38 anni, ma era in magistratura già da 12.

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La corsa disperata di Livatino tra l’erba e i sassi della scarpata sotto il viadotto Gasena della statale che percorreva ogni giorno per andare dalla sua Canicattì al palazzo di giustizia di Agrigento, con la sua Fiesta amaranto senza scorta, rifiutata perché non voleva che altri perdessero la vita a causa sua, inseguito dai suoi aguzzini, verrà rievocata, nel tempio barocco nella città della Valle dei Templi, dalla sua camicia azzurra forata dai proiettili e intrisa di sangue. Sarà la reliquia venerata dal cardinale Semeraro, mentre il coro diocesano canterà l’inno “Sub Tutela Dei”, composto per la beatificazione, subito dopo la lettura della lettera apostolica con la quale Papa Francesco ha iscritto Rosario Livatino nell’albo dei beati, e l’indicazione della data della sua memoria liturgica.

La cattedrale di Agrigento, dove il 9 maggio alle 10 viene beatificato Rosario Livatino
La cattedrale di Agrigento, dove il 9 maggio alle 10 viene beatificato Rosario Livatino
Le ultime parole: “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”
Il postulatore monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, farà risuonare le ultime parole del giudice martire, “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”, riferite da uno dei killer, Domenico Pace, al pentito Gioacchino Schembri. Ma risuonerà anche il grido pronunciato a meno di tre anni dall’omicidio Livatino da san Giovanni Paolo II, proprio il 9 maggio, al termine dell’omelia della Messa nella Valle dei Templi, dopo aver incontrato privatamente mamma Rosalia Corbo e papà Vincenzo, i genitori di Rosario. “Non uccidere!: non può uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!” scandì in piedi, stringendo la mano a pugno e poi alzando il dito al cielo, e nel nome di Cristo disse ai responsabili “che portano sulle loro coscienze tante vittime umane”, “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”.

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Il messaggio dei vescovi siciliani: “Rosario, uno di noi”
In Sicilia risuonano anche le parole dei vescovi, nel messaggio scritto in occasione della beatificazione, che definiscono Livatino ”uno di noi, cresciuto in una comunissima famiglia delle nostre e in una delle nostre città, dove ha respirato il profumo della dignità e dove ha appreso il senso del dovere, il valore dell’onestà e l’audacia della responsabilità”. I pastori siciliani scrivono della “giovinezza” del martire canicattinese, della sua professione e della sua professionalità, del significato della sua beatificazione oggi e in questa terra; illustrano le tappe del cammino delle coscienze iniziato con l’assassinio del magistrato, e passato attraverso il grido di Giovanni Paolo II e la lettera “Convertitevi!” dei vescovi di Sicilia per il 25° di quell’appello e fino alla beatificazione; si soffermano sulla “eredità” di Livatino, ma non meno su quella “di Puglisi e di innumerevoli altri fratelli e sorelle, che non saranno mai elevati gli onori degli altari, ma che hanno scritto pagine indelebili di storia ecclesiale e civile, anche ai nostri giorni e anche nella nostra Sicilia!”.

La stele sul luogo dove il giudice martire è stato colpito a morte, lungo la statale Caltanissetta-Agrigento
La stele sul luogo dove il giudice martire è stato colpito a morte, lungo la statale Caltanissetta-Agrigento
In trent’anni le cose sono cambiate, ma non abbastanza
”Purtroppo – scrivono i vescovi siciliani – dobbiamo riconoscere che, al di là di alcune lodevoli iniziative più o meno circoscritte, le nostre Chiese non sono ancora all’altezza di tale eredità”. L’invito è a “ripartire, considerando che in questi trent’anni tante cose sono cambiate, ma non sono ancora cambiate abbastanza. Se sembra finito il tempo del grande clamore con cui la mafia agiva nelle strade e nelle piazze delle nostre città, è certo che essa ha trovato altre forme – meno appariscenti e per questo ancora più pericolose – per infiltrarsi nei vari ambiti della convivenza umana, continuando a destabilizzare gli equilibri sociali. Di fronte a tutto questo non possiamo più tacere, ma dobbiamo alzare la voce e unire alle parole i fatti: non da soli ma insieme, non con iniziative estemporanea ma con azioni sistematiche. Solo così il sangue dei martiri non sarà stato versato invano e potrà fecondare la nostra storia, rendendola, per tutti e per sempre, storia di salvezza”.

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Il Papa: la testimonianza di Livatino ci faccia sentire tutti fratelli
Stasera alle 19.30, a Canicattì, la veglia in attesa della beatificazione
Questa sera, alle 19.30, nella chiesa di S. Domenico in Canicattì, la parrocchia della famiglia Livatino, frequentata anche dal prossimo beato, l’arcivescovo coadiutore di Agrigento monsignor Alessandro Damiano, presiederà una veglia in attesa della beatificazione, alla quale sono invitate ad unirsi, nella preghiera, nello stesso momento, tutte le comunità cristiane dell’arcidiocesi. Verrà letto un brano dalla conferenza su Fede e Diritto del servo di Dio Rosario Livatino, tenuta a Canicattì il 30 aprile 1986, nel quale il magistrato sottolinea che “il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare”. E sottolinea che “E’ proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio”.

L'arcivescovo coadiutore di Agrigento, Alessandro Damiano, che presiede stasera alle 19.30 a Canicattì la veglia in attesa della beatificazione di Rosario Livatino
L'arcivescovo coadiutore di Agrigento, Alessandro Damiano, che presiede stasera alle 19.30 a Canicattì la veglia in attesa della beatificazione di Rosario Livatino
Il lavoro di sette anni del postulatore diocesano don Livatino
Della grande umanità e della voglia di normalità di Rosario Livatino, del suo impegno a camminare sempre “sotto lo sguardo di Dio” e della sua coerenza cristiana e civile, parla a Vatican News don Giuseppe Livatino, il postulatore diocesano della causa di beatificazione, che non è parente del giudice martire, ma per sette anni dal 2011 al 2018, ha letto per il processo canonico tutte le parole scritte sulle sue sette agendine dal magistrato. Ha ascoltato colleghi, familiari, e testimoni raccogliendo questo materiale in più di 4mila pagine.

L’incontro con il killer pentito Gaetano Puzzangaro
Ha incontrato anche, il 3 maggio 2016, nel carcere di Opera dove sta scontando l’ergastolo per l’omicidio Livatino, il killer pentito Gaetano Puzzangaro, 22 anni al momento dei fatti, che dal 1998 ha iniziato un percorso spirituale, accompagnato dal cappellano del carcere, don Antonio Loi, e da altre persone. Puzzangaro ha accettato di testimoniare nel processo di canonizzazione “perché era doveroso – racconta nell’intervista a Fabio Marchese Ragona di Panorama del dicembre 2017 − Oggi mi farei ammazzare piuttosto che rifare ciò che gli ho fatto! E lo prego ogni domenica a Messa. Il mio più grande rimorso? Non aver avuto il coraggio di chiedere scusa ai suoi genitori”.

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La lettera del pentito ai giovani di Palma di Montechiaro
In un incontro definito dal delegato monsignor Apeciti “intenso, profondo e toccante” il pentito, il 25 luglio 2017, ha testimoniato per la causa di beatificazione. La testimonianza di Puzzangaro è stata importante per il processo diocesano – ha spiegato poi il giudice delegato, don Lillo Argento – è stato disponibile a farsi ascoltare. Le sue parole si affiancano a quelle di tutti gli altri “testimoni”. Ma io la definirei una ‘pietra miliare’ di questo processo di canonizzazione”. il 21 settembre 2017, una sua lettera dal carcere è stata letta durante la cerimonia pubblica di commemorazione del giudice Livatino, che si è svolta a Palma di Montechiaro, la città d’origine dei killer di Livatino, tutti ventenni al momento dell’omicidio, Palma di Montechiaro. “Gli errori, anche i più atroci, vanno riconosciuti – scrive Puzzangaro - anche se recano un dolore che dilania e descrivono il fallimento di una vita: la mia”. E ancora: “Ho il dovere morale di condannare ogni atto criminale, mettendoci la faccia, in nome di chi è morto per la legalità, dei familiari delle vittime, della mia Sicilia martoriata. Ho il dovere morale di espormi come esempio fallimentare per tutti quei giovani che pensano di trovare nella criminalità organizzata eroismo, successo, soldi facili, rispetto. Vi prego: dite no ad ogni forma di organizzazione criminale”. Anche un altro killer, Domenico Pace, anche lui ergastolano, ha chiesto perdono prima del 2018.

Don Giuseppe Livatino, postulatore diocesano della causa di beatificazione
Don Giuseppe Livatino, postulatore diocesano della causa di beatificazione
Don Livatino: si può parlare di un “magistero” di Rosario
A don Livatino chiediamo, prima di tutto, quali parole di Rosario Livatino l’hanno colpito di più, raccogliendo e studiando i suoi due interventi pubblici e soprattutto le confidenze scritte sulle sette agendine.

Ascolta l'intervista a don Giuseppe Livatino
R.- Le parole che più colpiscono, leggendo le agende di Rosario, scritte con grafia minuta, a matita, certamente sono quelle di preoccupazione che lui esterna riguardo ai suoi genitori. Quando stanno poco bene, ma soprattutto, a partire dal 1984, quando comincia a comprendere che probabilmente il prezzo da pagare per la sua coerenza morale e professionale sarà quello della vita. In quel momento, quando lui finalmente chiude questo periodo, che potremmo chiamare anche di notte oscura della sua vita, nel 1986, quindi dopo due anni, come se dimostrasse di accettare questo probabile prezzo da pagare, ha un'unica preoccupazione: quella di evitare che del male possa giungere ai suoi genitori attraverso di lui. L'unica sua preoccupazione, quel momento non è più la probabilità del sacrificio della vita, ma pensa al dolore che la sua uccisione procurerà ai suoi genitori, che lui che venerava. Questa è una delle cose che mi ha impressionato certamente di più.

I genitori di Rosario Livatino, Rosalia Corbo e Vincenzo (a destra), e al centro l'arcivescovo di Agrigento Carmelo Ferraro, che ha celebrato il funerale
I genitori di Rosario Livatino, Rosalia Corbo e Vincenzo (a destra), e al centro l'arcivescovo di Agrigento Carmelo Ferraro, che ha celebrato il funerale
Nelle sue agendine, emerge infatti il suo legame stretto con i genitori, ma anche il desiderio di amore coniugale, che non volle e non potè coronare, per i rischi che correva e che avrebbe fatto correre ad una sua eventuale famiglia. Cosa può dirci di questo?

R.- Viene fiori anche qui l’umanità e la normalità di Rosario. Lui ha un grande desiderio: di formare una famiglia, una bella famiglia cristiana. Persegue questo sogno per un periodo di tempo, c’è un fidanzamento ufficiale che poi però va a monte, però la sua tensione rimane sempre quella per una vita normale e ordinaria. Certamente lui faceva bene il suo lavoro, correva anche dei rischi, però la tua ricerca prioritaria era quella della normalità. Tanto che quando i genitori seppero la notizia del suo omicidio, rimasero totalmente turbati, soprattutto per il fatto che non si aspettavano una cosa del genere. Perché lui non aveva mai trapelare nulla, e perché la stampa non ti era mai occupata di Livatino. Non c'era nessuna intervista, non c'era nessuna notizia che potesse in qualche modo far prevedere ai genitori un epilogo così tragico della vita del giovane figlio. C’è questa sua attenzione, soprattutto, di rimanere nel nascondimento, di fare il suo lavoro di ogni giorno. Collabora strettamente nelle grandi indagini sulle mafie internazionali con Falcone e Borsellino e si trovano tracce anche nelle sue agende di questa attività giudiziaria molto importante. Però rimane il giudice che è sconosciuto ai più: moltissimi anche a Canicattì, non sapevano neanche chi fosse quel ragazzo che vedevano scendere da casa, che vedevano andare alla posta a fare la fila, che vedevano all’edicola a comprare il giornale. Nessuno sapeva, o pochissimi sapevano chi fosse in realtà, un grande magistrato con una grande responsabilità sulle spalle, e con una grande storia della sua attività giudiziaria.

E quale gesto, atteggiamento o consuetudine del prossimo beato crede descriva bene chi è stato Rosario Livatino?

R. -Certamente ci sono molti episodi, scoperti anche questi dopo la morte. Come quello semplice, ma molto significativo, di recarsi nella chiesa di San Giuseppe, ad Agrigento, ogni mattina, prima di affrontare la sua giornata di lavoro sicuramente pesante e carica di responsabilità. Qui riscrive esattamente quelle famose tre lettere che si trovano su tutte le agende: “Sub Tutela Dei”. Rosario sente un fortissimo bisogno di camminare sotto lo sguardo di Dio, perché è chiamato ad assolvere un compito che è gravoso per un uomo: e cioè quello di giudicare, e lui lo dice anche una delle due conferenze, quella su Fede e Diritto, nel 1986 a Canicattì. Dice: “Il peccato è ombra, e per giudicare occorre la luce. Ma nessun uomo è luce assoluta”. Quindi c’è questa sua attenzione, questo anelito, a camminare sempre sotto lo sguardo di Dio, per poter svolgere bene questo compito gravoso che è quello di rendere giustizia. Tant'è che per lui stesso il rendere giustizia, diventa dedizione a Dio, diventa realizzazione, diventa preghiera.

Una delle rare foto di Rosario Livatino, il giudice agrigentino ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990
Una delle rare foto di Rosario Livatino, il giudice agrigentino ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990
Quindi “sguardo” e non “tutela”: perché se il senso è essere sotto la tutela di Dio, Dio non è riuscito a proteggerlo…

R.- La radice latina della parola conduce soprattutto allo "sguardo". Sotto la protezione di Dio lui si è sentito sempre. Rosario ha sempre avuto una fortissima fiducia e lo vediamo anche nelle agende: vediamo che nei momenti di difficoltà ha sempre e comunque la capacità di mettere tutto nelle mani di Dio. E’ lì che lui si sente protetto, sicuro. Ma ha bisogno di un di più che stavolta dipende da lui: scegliere di camminare sotto lo sguardo di Dio. Perché la protezione di Dio è un qualcosa che viene direttamente da Dio. Il camminare sotto lo sguardo, invece è una scelta che lui fa, ogni giorno, di mantenersi lontano dal peccato, per poter vivere da buon cristiano e soprattutto per poter svolgere bene questo compito, a servizio dello Stato, del corpo sociale.

C’è un altro gesto, quello di recarsi personalmente a consegnare il mandato di scarcerazione per un detenuto a fine pena, perché non trascura neanche un minuto in più in cella di quanto stabilito…

R.- E’ un fatto che accade il 16 agosto 1984, quando le macchine non avevano l’aria condizionata, e lui comunque aveva una vecchia Ford Fiesta color amaranto. Eppure da Canicattì parte per andare ad Agrigento e lì lo accoglie anche lo stupore degli agenti di polizia penitenziaria, che gli chiedono subito, quasi in maniera ironica: “Dottore, ma che fa qua lei oggi?”, in una giornata di ferie, festa e relax. E lui risponde che è giusto che il debito pagato con la giustizia, porti poi effettivamente ad una scarcerazione di un uomo che ha diritto alla sua libertà nel momento in cui finisce di pagare quella pena. Ma questa forma disponibilità e anche di fortissima umanità la troviamo veramente in tantissimi piccoli gesti, che ci vengono raccontati anche dal personale del palazzo di giustizia di allora. Livatino era l'unico magistrato che si fermava a parlare con gli impiegati, ma è anche il rispetto che manifesta anche nei confronti degli imputati, e questa sua ricerca, sempre molto attenta, della verità. Il suo essere magistrato, non per mandare in galera la gente, ma soprattutto per stabilire la verità, e stabilirla con giustizia. Diversi avvocati difensori nei processi in cui era coinvolto anche Livatino come pubblico ministero, hanno raccontato che gli mandava in tilt, perché loro, avvocati difensori chiedevano ad esempio una pena di 6 anni e Livatino come pubblico ministero chiedeva poi una pena di 5 anni e mezzo. Questo perché riteneva opportuno che in quel momento la legge si dovesse essere applicata, ma c’erano condizioni favorevoli al colpevole che comunque andavano riconosciute e quindi andavano applicate.

La toga di Rosario Livatino, conservata nella casa di Canicattì dove viveva con i genitori
La toga di Rosario Livatino, conservata nella casa di Canicattì dove viveva con i genitori
Infatti, il giovane magistrato diceva che la giustizia dev’essere superata dalla carità, e poi agiva concretamente dimostrando vicinanza umana ai colpevoli che aveva fatto condannare, ai detenuti e alle vittime delle guerre di mafia…

R. – Sì, c’è un episodio raccontato dai custodi dell’obitorio di Agrigento. Lui andava spesso lì per le cosiddette “ricognizioni cadaveriche”, anche per morti ammazzati nelle guerre di mafia. La vedevano per prima cosa entrare nella stanza della sala mortuaria, farsi il segno della croce e poi raccogliersi in preghiera per qualche minuto, prima di iniziare la sua attività. Ma anche quando invece va sul luogo dell'agguato insieme ad un sottufficiale dei carabinieri, e questo manifesta una certa contentezza perché, dice, “finalmente ci siamo tolti di mezzo un altro ‘nemico’” dato che era morto un altro boss mafioso ammazzato da altri mafiosi, Livatino lo rimprovera severamente e gli dice: “Di fronte alla morte chi ha fede prega, e chi non ha fede tace”. E’ la sua storia cristiana che lo porta ad avere il massimo rispetto della persona. Riesce sempre a distinguere tra reo e reato. Comprende bene che il reato è una cosa comunque da condannare, ma il reo rimane sempre una creatura di Dio che ha quindi dritti e dignità e per il quale bisogna trovare spazio anche per la comprensione e la misericordia.

In precedenti interviste, lei ha voluto sottolineare innanzitutto la straordinaria coerenza, cristiana e civile, di Rosario. Ce ne può dare un esempio?

R.- Non è un magistrato che va a messa la domenica e basta. Ma è il magistrato che conosce profondamente la Scrittura, la fa diventare il suo stile di vite, il suo punto di riferimento. Conosce gli scritti dei Padri della Chiesa, conosce i testi del magistero, conosce ed applica i documenti del Concilio Vaticano II. La sua è una fede che costruisce realmente pezzo per pezzo. Questo fa di lui veramente il cristiano credibile che si rapporta quotidianamente con il Vangelo e che fa riferimento al suo Signore in ogni istante della sua vita. Le agende sono piene di atti di lode e di ringraziamento al Signore per il momento belli che vive, ma anche nei momenti di difficoltà lo troviamo lì ad invocare sempre l’aiuto del Signore. Per questo si può parlare realmente di un magistero di Rosario Angelo Livatino, e questo magistero lui lo vive da cristiano e da buon servitore dello Stato. Non sono due momenti scissi uno dall'altro: per lui è un tutt'uno. La sua vita è fatta di testimonianza evangelica e di fedeltà alla Costituzione. Perché giustamente se uno è un buon cristiano, deve necessariamente essere un buon cittadino. Ecco perché anche l’odio e l’acredine da parte non solo della mafia, ma anche di alcuni giornalisti. Che non l’hanno visto di buon occhio perché lui gli impediva quasi di lavorare solo perché non gli passava le indiscrezioni e quindi non permetteva a certa stampa di sbattere in prima pagina il classico mostro. Ma proprio per questo è stato comunque apprezzato da tantissimi altri giornalisti e molto hanno anche deposto al processo di canonizzazione e hanno detto che ha fatto bene, perché era un difensore strenuo del segreto istruttorio. Sono tutti i dati veramente essenziali, come il fatto stesso di non voler apparire. C'è il maxi processo “Santa Barbara” del 1984, quando per la prima volta tutti i capi cosca agrigentini sono alla sbarra, grazie all'indagine condotta da Livatino, e giornalisti chiedono una foto ricordo di tutti i magistrati che in quel momento lavorano in tribunale e in procura ad Agrigento. Ma ottengono subito il diniego di Livatino che dice: “Non siamo qui per parlare e far parlare di noi, siamo qui per rendere giustizia”. E quella foto non si fece.

Il feretro di Rosario Livatino portato in spalla dai colleghi del palazzo di giustizia di Agrigento, il giorno del funerale
Il feretro di Rosario Livatino portato in spalla dai colleghi del palazzo di giustizia di Agrigento, il giorno del funerale
Come parlerebbe, in breve, di Rosario Livatino a un giovane che non conosce la sua vita e la sua testimonianza?

R.- Cercherei di fargli capire quanto sia importante la visione di Livatino del mondo e delle cose. Prima fra tutte l'importanza che lui dà a fondare la vita su dei valori e lo dice anche nelle sue conferenze: l’uomo ha bisogno di valori, ma valori che siano tali, intramontabili. Possono essere valori cristiani, legati al Vangelo, possono essere valori civili. E lui, fondando la sua vita sui valori afferma anche la sua libertà. Oggi tutti parlano di libertà, tutti parlano anche di valori, ma realtà si sta parlando di pseudo libertà e di disvalori. C’è in lui questa tensione continua a vivere la vita veramente in pienezza, che è la cosa più bella che un uomo possa fare, nella dedizione di sé agli altri, nel perseguimento del bene comune. Per arrivare al raggiungimento della propria felicità. Perché Livatino questo concetto: la vita è ricerca della felicità, ed essere felici vuol dire far felici gli altri, perché quando sono felici gli altri, sono felice anche io.

Se la Sicilia di oggi è diversa da quella di 30 anni fa, è grazie anche alla sua testimonianza credibile? La sua vita, la sua morte ora la sua beatificazione hanno già cambiato e stanno ancora cambiando i cuori dei siciliani? I vescovi nel loro messaggio per la beatificazione dicono: “Non abbastanza”…

R.- Livatino è stato un seme, che è caduto a terra e che ha dato molti frutti, ma che ancora fa difficoltà ad entrare in determinati ambienti. Perché al di là della cultura mafiosa, c'è un sentire mafioso che permea in maniera ancora più profonda moltissime coscienze. Perché la cultura mafiosa comporta una corresponsabilità, una adesione piena ad un modo di agire e di pensare. Ma il sentire mafioso è più subdolo, perché qui c'è molto, molto diffusa la cultura del familismo. Per cui ci sono dei “valori” che in realtà non sono tali e diventano disvalori, come quello dell'amicizia, della conoscenza, della familiarità che ci fanno comportare in maniera diversa a seconda di chi abbiamo di fronte. Livatino comprende che il “sì” detto ad una persona in una determinata circostanza, può significare non un atto di benevolenza ma invece un danno alla persona, e può significare una compromissione da parte di chi quel sì lo dice. Quando un giorno va da lui un sacerdote, suo ex insegnante a chiedergli una piccola raccomandazione, Livatino non cede: sorridendo gli risponde. “Ma lei quando confessa accetta raccomandazioni?”. Lui ha questa forza di mantenersi veramente equidistante da ogni tipo di interesse, da ogni tipo di circostanze che possano qualche modo far flettere anche la sua dirittura morale. E lui era una sorta di enciclopedia vivente da tutti i punti di vista. Una persona talmente dotata, talmente straordinaria, da diventare punto di riferimento per i colleghi e punto di riferimento anche per l'amministrazione della Giustizia, qui in una terra difficile come quella di Agrigento.

Rosario Livatino a cinque anni, in una foto dall'album di famiglia
Rosario Livatino a cinque anni, in una foto dall'album di famiglia
Di sicuro ha cambiato però il cuore di un killer che si è pentito, grazie a lui…

R.- Certamente questo seme ha prodotto i suoi frutti negli uomini e nelle donne di buona volontà, ma pensiamo anche a quello che è stato il cammino di conversione che ha fatto uno dei quattro killer (Gaetano Puzzangaro, n.d.r.), che in quel momento è stato coinvolto in questo omicidio, non sapendo neanche chi era il soggetto da sopprimere. Lui non sapeva nulla di Rosario Livatino, ma gli fu chiesto questo favore e lui, da buon familista detto subito sì, perché si trattava di fare un favore a degli amici. Ma poi ha cominciato a conoscere la figura di Livatino, e quando io ho incontrato questo killer nel carcere di Opera, mi ha ripetuto fino all'ossessione una frase: “Se potessi tornare indietro”. Me l'ha ripetuta fino al punto tale che poi l'ho dovuto interrompere, e ho detto: “Guarda che indietro non si può tornare, però avanti puoi andare”. E guardare il risultato: questo killer ha scritto una lettera ai giovani del suo paese, Palma di Montechiaro, dove ha raccontato la sua esperienza,le sue illusioni e le sue disillusioni e soprattutto ha cercato di fare in modo che altri ragazzi non cadano nella tentazione della mafia, della criminalità organizzata, o del malaffare in genere e vivano veramente da uomini e donne liberi, che sanno realizzare anche un proprio sogno e un progetto di vita. Questo è il grande dono della redenzione: una vita donata che continua a produrre frutti, anche a tantissimi anni dalla sua morte violenta. Questa vita donata continua ad essere veramente portatrice di grandi doni, portatrice di speranza e di libertà, soprattutto.

Alfredo Mantovano, giudice di Cassazione e vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino
Alfredo Mantovano, giudice di Cassazione e vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino
Mantovano: esempio di professionalità e dirittura morale
Di Rosario Livatino magistrato, prima sostituto procuratore, dal 1978 al 1989, poi giudice a latere, e della sua testimonianza per i servitori della giustizia di oggi, ci parla Alfredo Mantovano, giudice della Corte di Cassazione e vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino. Nato nel 2015, è composto da un gruppo di giuristi, (magistrati, avvocati, docenti universitari, notai) che sull’esempio del giudice agrigentino, studia temi riguardanti soprattutto il diritto alla vita, la famiglia, la libertà religiosa, e i limite della giurisdizione in un quadro di equilibrio istituzionale.

Ascolta l'intervista ad Alfredo Mantovano
R - Se non fosse stato ucciso, Rosario Livatino sarebbe ancora in servizio, il che significa che la sua figura non è lontana nel tempo. E’ una figura che può dire molto al magistrato di oggi, soprattutto di fronte ai pessimi esempi che vengono dal mondo della magistratura: grandissima professionalità, dirittura morale, conoscenza attenta delle norme e degli orientamenti giurisprudenziali, sforzo per cogliere la verità del fatto sottoposto al suo giudizio e grande dedizione al lavoro. Mi paiono doti esemplari per il magistrato di ogni tempo, ma soprattutto per il magistrato del nostro tempo.

In un recente libro del collega Toni Mira è uscito questo intervento inedito di Livatino al funerale del magistrato Cucchiara, nel quale il giudice diceva: “I magistrati possono dividersi in due categorie: quelli che dicono: ‘la Legge non dice che io non pos­so farlo e allora lo faccio’, e quelli che invece dicono: ‘la Legge non dice che io lo posso fare e quindi non lo faccio’. Tra queste due categorie c’è la differenza che corre tra l’esse­re semplicemente operatori del diritto e l’essere Operatori di Giustizia”. Quanto queste parole e la testimonianza di vita di Livatino, sono da esempio e da monito per i magistrati di oggi?

R.- Oggi si è diffusa ed era già in qualche modo iniziata all'epoca di Livatino una prassi perversa all'interno delle varie magistrature, cioè quella non di applicare secondo scienza e coscienza la norma al caso di specie sottoposto al giudizio, ma quello di inventare la norma, immaginando discipline oltre il dettato normativo, in certi casi oltre il dettato costituzionale, facendo una sorta di shopping anche in altri ordinamenti, o interpretando come regola sovraordinata la Convenzione Europea dei diritti dell'uomo. Questo ha portato a decisioni sconcertanti, soprattutto sui cosiddetti nuovi diritti e non a caso Papa Francesco, ricordando Livatino nel novembre del 2019, lo ha segnalato come esempio anche di giudice che non inventa nuovi diritti, nuovi istituti, ma è strettamente ancorato alla realtà concreta.

La scrivania che Rosario Livatino usava a casa e la sua macchina da scrivere
La scrivania che Rosario Livatino usava a casa e la sua macchina da scrivere
Però un magistrato che vuol essere operatore di giustizia, deve saper andare al di là dell’applicazione stretta della legge e riuscire anche essere anche umano…

R.- Questo senza ombra di dubbio. Nelle due conferenze, gli unici due interventi pubblici che Livatino ha fatto nella sua vita, a parte il lavoro giudiziario, in particolare in quella dedicata al rapporto tra fede e diritto lui ricorda che se la bussola, l'orientamento del magistrato deve realizzarsi nell’ applicazione della legge, poi la ragione della legge, la sua anima va rintracciata in quella legge naturale che si chiama così perché è iscritta nella natura dell'uomo e che deve fare da riferimento ultimo. Diverso è quello che accade, purtroppo in più di una circostanza, oggi più che nel passato, e cioè di cercare norme assolutamente nuove sulla base dell'ideologia e della moda del momento.

Sempre il giovane magistrato diceva che la giustizia deve essere superata dalla carità e poi agiva concretamente dimostrando vigilanza umana ai colpevoli che aveva fatto condannare, ai detenuti e alle vittime delle guerre di mafia…

R.- La straordinarietà dell’ordinaria vita di Livatino è la sua capacità di coniugare il rigore nell'applicazione della norma, senza sconti neanche per il mafioso che era suo vicino di casa, con non sono l'umanità, ma il rispetto rigoroso delle tutele difensive, anche per il criminale peggiore.

Quindi è più corretto definirlo “il giudice giusto”, come fa nel titolo del suo libro il collega Toni Mira, piuttosto che “il giudice ragazzino”?

R.- Tutto poteva essere Rosario Livatino al momento della morte, fuorchè “giudice ragazzino”, perché aveva già 12 anni di funzione giudiziaria alle spalle ed era un po' il saggio dell'ufficio, quello a cui tutti ricorrevano quando avevano necessità di un suggerimento, di un consiglio, di un conforto. Esattamente il contrario di un ragazzino.

La tomba di Rosario Livatino,, nella cappella di famiglia del cimitero di Canicattì
La tomba di Rosario Livatino,, nella cappella di famiglia del cimitero di Canicattì
Dal punto di vista delle indagini Livatino è stato uno dei primi ad attuare, con Falcone e Borsellino, la confisca dei beni ai mafiosi. Misura straordinariamente efficace contro le mafie…

R.- Non solo l’ha praticata intensivamente, ma l'ha praticata in un momento in cui la normativa sul punto era molto scarna e quel tipo di misure venivano considerate più misure di polizia che misure giudiziarie. Lui ha dato un tratto di rispetto delle garanzie e al tempo stesso di efficacia nel colpire il patrimonio dei mafiosi, con provvedimenti che reggevano in tutti i gradi di giudizio. Questa è stata una delle ragioni per cui la Stidda ha deciso di ucciderlo, perché era il personaggio dal loro punto di vista più pericoloso per la loro attività criminale.

Forse a questa beatificazione non si sarebbe mai arrivati senza il coraggio di Pietro Ivano Nava, il testimone che ha riconosciuto i killer e che per questo ha perso tutto: il nome, la famiglia, il lavoro. Eppure lo rifarebbe. Anche questa è una testimonianza da ricordare oggi…

R.- Nava è stato, diciamo, il primo effetto positivo derivante dal sacrificio di Livatino. In una terra in quel momento, oggi molto è cambiato, fortemente permeata dall’omertà, ci voleva una persona che veniva da fuori per riferire subito ciò che aveva visto e questa testimonianza è stata decisiva per avviare il giudizio, e probabilmente senza il primo giudizio, il cui chiodo era questa testimonianza, non ci sarebbero stati due successivi, seguiti poi dalla collaborazione di uno dei killer e di uno dei mandanti. Purtroppo Nava ha scontato l'assenza in quel momento di una legislazione, non solo sui collaboratori giustizia, quale lui non era, ma anche sui testimoni di giustizia. Per cui ha pagato un prezzo enorme per questo suo dovere civico, che è diventato eroismo.

Nel Centro Studi Livatino, come cercate di portare avanti nell’oggi il pensiero è l'azione del giudice nel campo del diritto e della giustizia?

R.- Intanto sviluppando alle tematiche di oggi quei principi da lui così ben espressi nelle sue due conferenze, sia sul collegamento stretto che esiste tra la legge dello Stato e legge naturale e sia sulla necessità del rigore anzitutto etico del magistrato e del giurista in generale, che non è un lavoratore come tutti gli altri, perché le sue decisioni incidono profondamente nella carne e nel sangue delle persone. Avere questo riferimento significa avere oltre che un protettore in cielo che oggi è anche riconosciuto tale, anche un esempio non accademico, non retorico, ma molto concreto per l’attività quotidiana.

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08 maggio 2021, 08:38
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Agrigento-Cattedrale-S. Messa Beatificazione
Dalla Cattedrale di Agrigento, Santa Messa celebrata dal Cardinale Marcello Semeraro con la Cerimonia di Beatificazione del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino
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Pontificio Santuario di Pompei, Santa Messa
, almeno nei tempi più antichi, e così anche la scultura, benché non mancassero monumenti commemorativi per le vittorie in battaglia ad esempio. Le grandi realizzazioni artistiche avvenivano per commissione da parte della comunità religiosa o statale, tuttavia in Grecia il privato cittadino, che concepiva l'arte come offerta in onore degli dei o dei defunti, poteva investire le proprie pur modeste risorse per dedicare opere nei santuari mentre nelle civiltà orientali l'iniziativa dei privati nel campo dell'arte rimase del tutto sconosciuta. Le statue testimoniavano della continua presenza del devoto, benché slegate da ogni riferimento personale restando concepite secondo una tipologia astratta, quella del kouros o della kore.[1] I temi erano gli stessi che venivano svolti nelle altre arti, la figura umana, il mito e le scene di vita quotidiana mentre la rappresentazione delle battaglie storiche avveniva in prevalenza tramite i racconti mitici e solo raramente in modo diretto, come invece avveniva presso egizi ed assiri. I materiali più usati erano la pietra (marmo o calcare), il bronzo, il legno, la terracotta, ecc.

Nei periodi più antichi le sculture in pietra erano eseguite con la diretta scalpellatura; gli strumenti impiegati erano la subbia, il trapano e i vari scalpelli, tutti azionati con la mazzuola. Il trasporto dei blocchi di pietra era problematico e dispendioso quindi le statue monumentali erano tagliate nella loro forma approssimativa nelle cave dove venivano abbandonate se mostravano rischi di frattura e dove sono rimaste fino ai nostri giorni.[2] Teste e braccia, se non aderivano al corpo, erano scolpite separatamente e unite in seguito con cavicchi di metallo e cunei di pietra, di solito annegati nel piombo fuso, mentre i pezzi più piccoli potevano essere attaccati con cemento. Queste sculture erano sempre dipinte essendo il colore un aspetto della realtà fenomenica come ogni altro e oltre ad essere colorate le statue erano impreziosite con l'aggiunta di accessori di diverso materiale: si inserivano occhi di pietra colorata, pasta vitrea o avorio; riccioli di metallo, diademi, orecchini e collane; lance, spade, redini e briglie; materiale per lo più perduto e di cui resta traccia nei fori di sostegno.

Con l'aumento delle dimensioni delle opere, durante il VII secolo a.C., le statue bronzee cominciarono ad essere prodotte con la tecnica della fusione cava che fin da tempi antichissimi era stata praticata in Egitto e che si diffuse nel corso del VI secolo a.C. Furono usate sia la tecnica a cera persa sia quella a matrice insabbiata. In quest'ultimo procedimento la figura era di solito realizzata in sezioni, il modello era di legno invece che di cera e veniva affondato in un recipiente colmo di sabbia umida dove lasciava l'impronta per la fusione. Contrariamente a quanto avveniva per la statuaria in pietra, ai bronzi veniva lasciato il colore naturale, ma come si è visto, illuminato coloristicamente da inserti in altro materiale.

Statue in terracotta e rilievi di grande dimensione sono stati trovati a Cipro, in Etruria, in Sicilia e nell'Italia meridionale dove il marmo era scarso. Nel periodo più antico le statue di terracotta erano formate con rotoli di argilla a formare le pareti esterne; per prevenire la deformazione e il restringimento durante la cottura, l'argilla era unita a sabbia e a pezzi di argilla cotta. In epoca ellenistica e romana fu più comune l'uso dello stampo.

Soltanto a metà del XX secolo ritrovamenti archeologici hanno svelato il procedimento della tecnica crisoelefantina.
Sono certo che prima o poi ci sarà un cambiamento per il meridione e per l'italia intera, che parta dall'alto, in grado di creare un'unità "Vera" e condizioni imparziali per tutti.

Personalmente penso che la nostra coscienza è assopita, dormiente, e non riesce a controllare gli effetti di nessuna causa, in conseguenza di tutto ciò siamo esseri limitati senza nessun potere sugli eventi. Tutti noi, "schiavi impauriti", mortificati e frenati nel nostro "libero pensiero". La fede forte nella legalità che ha portato i giudici alla morte ci fa sperare ancora in un nuovo ciclo che spazzerà via questo "Medio Evo buio" di sottomissione, e l'intero Sud balzerà in piedi, rendendosi conto di aver vissuto un brutto incubo.

Ricordate la favola della "Bella Addormentata"? Dove l'intero Reame si trovava sotto il maleficio di una brutta e cattiva strega? Bene, il reame che dorme è l'umanità e il nuovo ciclo equivale all'Eroe, al Principe Azzurro, che con una nuova qualità energetica risveglierà tutti. Quindi, per essere in sintonia con questo evento, si dovrà cambiare il modo di vedere le cose, rinnovarsi, perchè il tutto inizia e finisce dentro di noi.

In quanto alla mia originale idea di opera d'arte che parla di Unità e di Legalità tratta il tema dei Giudici " Saetta e Livatino" vuole certamente dare vita a concetti di alto spessore sociale che comunicano direttamente al "nuovo uomo" che, "alimentato" di una nuova energia con caratteristiche superiori, si desta da un lunghissimo letargo per rafforzare una Unita' dello stato sempre più forte. Allora i suoi occhi si apriranno e ri-sorgerà come l'Araba Fenice dalle sue stesse ceneri.

Il significato concreto dell'opera, vuole rendere onore all' Italia e ai due magistrati Canicattinesi, ed esprime la profonda e sincera gratitudine per l'essenziale, preziosa attività che loro hanno svolto a beneficio della collettività. L'opera parte da un "Delta Sacro" quasi a ipotizzare che il loro cammino è stato segnato da un progetto Divino.

L'ispirazione per la realizzazione di quest'opera deriva dal desiderio di forme perfette quasi a voler teorizzare il desiderio dei due Giudici, concretizzare un'utopia: "Un' Italia perfetta " un monumento dalle linee pulite e di semplice comprensione, dominato da un rigoroso senso della geometria. Dal Volto si è ricavato una silhouette che a partire dal centro rappresenta il punto da dove l'uomo/giudice, conoscendosi, può raggiungere qualsiasi traguardo, attraverso notevole impegno, lavoro, dedizione ed intuito. Sotto il delta centrale una sequenza di volti rinasce e si sviluppa.

Ci piace pensare che il cammino continua oltre il semplice evento mortale, poiché la perdita della vita gli ha assicurato l'immortalità come "la fenice", rinati dalle loro ceneri perpetuano il loro nobile messaggio di Legalità. Due stele di marmo squadrato geometricamente perfetto contengono i volti dei giudici realizzate di un materiale prezioso, quasi a scandire l'evoluzione che va dalla pietra grezza alla pietra angolare all'oro.

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